AFRICA

NAMIBIA: Dove il Nulla è Tutto

Primo racconto della sezione “Travel and Friends“!!

La mia cara amica Isabella, ci racconta del suo meraviglioso viaggio in terra africana. Namibia.

Quando pianti un seme, in una terra fertile, bastano poche gocce di acqua che questo inizia a crescere. E quando questo inizia a crescere tu lo devi annaffiare, devi farlo germogliare, devi lasciare esplodere la sua bellezza, permettere il rigoglioso compimento della Natura. Qualcuno deve aver piantato un seme dentro di me quando ero bambina, un seme dai colori caldi, dal profumo intenso, con una sete perenne…perché a me, dentro, mi è esplosa l’Africa. E non fa altro che crescere, la sensazione di avere l’Africa dentro, dico… e non fa altro che chiedere acqua.

Dire che amo questo magnifico continente così controverso è dire poco.

L’Africa l’ho vissuta da volontaria, tra la gente, la sua povertà, la sua fame, i suoi sorrisi, il mio cuore strabordante. Poi ho scelto di viverla anche come viaggiatrice, perché il tempo del volontariato in posti come questo non può limitarsi alle due settimane di ferie estive che il lavoro ti permette, ti farebbe sentire totalmente incompleto. E così ho scelto di visitarla con gli occhi curiosi e con una cartina in mano, puntando verso sud… Namibia! Questa scelta perché sin da bambina sognavo di incontrare i suoi leoni dopo aver visto un bellissimo documentario su un centro di recupero felini proprio in questa nazione.  All’ epoca scrissi una lettera all’ organizzazione per avere più informazioni a riguardo perché sapevo, che prima o poi, avrei messo piede su quella terra polverosa. E così è stato… una scelta condivisa con il mio compagno di allora (era il 2016), che avendo sentito i racconti di alcuni amici tornati entusiasti dalla Namibia, ha appoggiato in pieno questa destinazione.

Devo dire che la Namibia che ho vissuto io è molto lontana dai ricordi di miseria che ho dalla mia esperienza in Camerun. Credo che questo sia dovuto soprattutto al fatto che di persone, in Namibia, ce ne siano pochissime. E’ infatti una delle nazioni meno popolose del mondo, conta appena 2,5 abitanti per km quadrato e quando sei lì, la sensazione di solitudine è davvero assordante. Allo stesso tempo, però, regna incontrastata la Signora Natura che si dichiara apertamente, senza timidezza, sfacciatamente bella. Quando parlo della Namibia dico sempre che in sole due settimane mi sembra di aver attraversato cinque o sei nazioni diverse; è incredibile la varietà di paesaggi racchiusi in questi 825mila km2 di assoluto silenzio, di orizzonti impercettibili, lande sconfinate, sabbia rossa, mare impetuoso, diamanti, animali selvaggi. Chi sceglie la Namibia come destinazione deve essere pronto a tutto questo, deve essere consapevole che spesso incontrerà il nulla, deve saper stare da solo con i propri pensieri perché il tempo delle chiacchiere con il tuo compagno di viaggio, durante gli spostamenti, è davvero troppo, ti asciuga la bocca.

Essendo una meta piuttosto battuta dai turisti soprattutto in Agosto ma con poche strutture ricettive, per la prima volta ho chiesto l’aiuto di un tour operator per mettere a punto l’itinerario, prenotare i lodge e sbrigare le pratiche del noleggio del fuoristrada, fedele compagno di tutti i 4.270 chilometri percorsi, dei momenti di sconforto di 2 gomme forate nel bel mezzo del nulla e il paraurti per aria tra i leoni e i ghepardi. Ci siamo affidati ad “AFROZAPPING”, un tour operator gestito da due ragazze italiane che vivono in Namibia, aiuto preziosissimo per mettere insieme distanze pazzesche in maniera ragionevole. … il risultato è stato che volevo vederla TUTTA. Grazie all’aiuto di Barbara e Sabrina il mio tutto è stato quasi possibile, consapevoli che avremmo dovuto macinare davvero tantissima strada e polvere. La scelta dei lodge come sistemazione anziché la tenda, come molti fanno in maniera sicuramente più economica, è dovuta al fatto che sapevamo di dover affrontare lunghe tratte, stancanti, per cui abbiamo deciso di spendere un po’ di più, ma avere la comodità di una stanza per riposarci al meglio. Devo dire che tutti i resort, anche quelli più semplici, erano davvero belli. Grazie a Barbara e Sabrina, poi, ci siamo muniti di una scheda con un numero telefonico namibiano perché le tratte desertiche erano piuttosto lunghe e avere la possibilità di comunicare telefonicamente con loro senza pagare un salatissimo roaming ci ha fatti stare più tranquilli. Un altro preziosissimo consiglio è stato quello di fare rifornimento ogni volta fosse possibile farlo e di tenere le valigie sempre coperte da sacchi neri nonostante fossero nel bagagliaio dell’auto…infatti, la maggior parte dell’itinerario è stato su strade sterrate e la polvere ha ridotto l’abitacolo del fuoristrada a livelli imbarazzanti. Come se una nuvola di talco fosse piovuta dentro l’auto.

Di vitale importanza, è stata la spiegazione del noleggiatore dell’auto sulle modalità di cambio gomma in caso di foratura. Beh, abbiamo bucato due volte, a quanto pare siamo anche stati sotto la media perché forare capita praticamente a tutti e non una volta sola. Le strade sono sempre deserte, per ore non passa nessuno e sono costellate da grossi sassi appuntiti; rimanerne immuni è quasi impossibile. Devo dire che, dopo le prime imprecazioni, ce la siamo cavata egregiamente.

Ma addentriamoci nel viaggio vero e proprio….dalla capitale, Windhoek, non così caotica come mi aspettavo, abbiamo puntato, cartina alla mano, verso sud, il deserto del Kalahari, uno dei più grandi del mondo. Da lì siamo scesi ancora, accompagnati dal corso del fiume Orange, fino a toccare l’estremo sud e imbatterci nel secondo canyon più grande del mondo dopo quello americano, il Fish River. Uno spettacolo roccioso da togliere il fiato. Da lì, la tappa successiva è stata Ai-Ais, microscopica cittadina termale inghiottita dalle montagne. In tutta la mia vita credo che questo sia stato il posto in cui ho sentito diventare tangibile e concreta la sensazione di poter toccare con la mia mano il cielo stellato, tanto era vicino, tanto ci schiacciava con il suo profondissimo blu, tanto era velluto avvolgente sopra la nostra testa. Ripartiti da Ai-Ais ci siamo diretti verso la costa con una breve splendida tappa intermedia ad Aus, una località in cui si può osservare una mandria di cavalli selvaggi scorrazzare nella steppa e abbeverarsi in una pozza artificiale insieme ai possenti timidi struzzi.

In seguito, abbiamo preso la strada verso la ex-cittadina coloniale di Luderitz, dove l’impronta tedesca dei primi del ‘900 è ben tangibile così come echeggia ancora nell’aria l’opulenza dell’industria dei diamanti di quel tempo. L’area intorno a Luderitz è stata una delle zone diamantifere più grandi del mondo e ancora oggi è vietato valicare alcuni confini, anche se le attività di estrazione sono notevolmente calate. E’ impressionante come ad ogni passo ti sembri di calpestare, tra la terra, minerali di incommensurabile valore. Da lì a pochissimi chilometri una tappa immancabile è stata la città fantasma di Kolmanskop.

Appena entri in questo piccolo villaggio ti rendi conto di quanto il tempo sia stato improvvisamente fermato, la vita sospesa. Essendo stata abbandonata tutta d’un sorso, finito il boom dell’estrazione dei diamanti, le case sono rimaste intatte com’erano e hanno lasciato entrare dalle porte e dalle finestre rotte la sabbia del deserto del Namib che circonda tutta quella zona, dando vita, così, a una delle città fantasma più belle e suggestive del mondo. Devo dire che io ho un debole particolare per tutto ciò che è decadente, abbandonato, intriso di storia e questo posto senza dubbio rimarrà per sempre impresso nei miei ricordi. Dopo la tappa sull’oceano abbiamo continuato a risalire la nazione fino a Sossusvlei nel bel mezzo dell’antico deserto rosso del Namib. Ci vorrebbe un capitolo a parte per raccontare le emozioni che ho vissuto sulla cime delle dune. Un’esperienza indimenticabile, fatta di albe e di tramonti, di colori potentissimi, di luci e di ombre, di fatica e di sete, di granelli di sabbia rotolanti per decine di metri ad ogni passo affondato sul crinale della duna. Non dimenticherò mai quelle prime luci del giorno, sulla cima della duna più alta del mondo, la Big Daddy (oltre 300 metri di altezza e di sudore), quando ho appoggiato lo sguardo stanco su un’indescrivibile distesa di curve morbide color ocra e, quel nulla sconfinato, mi è sembrato un TUTTO. A rendere ancor più suggestiva quella meraviglia sono state le oasi di sabbia bianca, secca e assetata, nella quale affondano le loro radici morte gli alberi di acacia anneriti dal sole che si scagliano contro un potentissimo cielo blu cobalto. Deadvlei è sicuramente uno dei simboli rappresentativi della Namibia più famosi nell’ immaginario collettivo.

Dalla sabbia di nuovo al mare, direzione nord, fino ad arrivare in un posto magnifico e unico al mondo in cui il deserto si incontra e si fonde con l’oceano in un matrimonio tra due elementi che in natura è impossibile unire, se non qui, nel paradosso. Sandwich Harbour è un posto assurdo, poco distante da Swakopmund, seconda “capitale” della nazione, in cui è stato pazzesco correre in 4×4 sulle dune del deserto costeggiando un oceano furioso. La natura è davvero straordinaria e mai scontata. Da lì il nostro viaggio ha continuato verso nord, in direzione Terrace Bay sulla Skeleton Coast. Sul percorso abbiamo fatto una tappa a Cape Cross, un promontorio sulla costa classificato come riserva naturale in cui vive una colonia composta da decine di migliaia di strambe e puzzolentissime otarie.

Scesi dall’auto lo scenario che si presenta davanti agli occhi è incredibile: questi animali sono distesi lungo tutta la costa per alcuni chilometri e la puzza è un qualcosa di infestante, davvero, ti si attacca addosso. Eravamo però pronti a questo con le mascherine per riuscire a respirare senza rimettere e i copri-scarpe per evitare di portarci dietro quel tanfo allucinante per tutto il resto del viaggio. Devo dire, però, che anche questa è stata una tappa magnifica.

Il nome Skeleton Coast (costa degli scheletri, appunto), deriva dalla miriade di naufragi di navi mercantili che sono avvenuti su quelle coste in cui la nebbia regna sovrana e la furia dell’oceano non perdona. Lungo i 200 km di costa sono insabbiati, per fortuna non tutti, migliaia di relitti vittime di quelle condizioni atmosferiche infernali. Ricorderò sempre la sensazione di terrore quando, con il nostro fuoristrada, abbiamo cominciato ad addentrarci nella nebbia, attorniati dal completo nulla, per ore e ore di strada dritta e piatta. Arrivati a destinazione all’imbrunire, in un lodge dimenticato da Dio e rimasto credo agli anni ’40, ricordo di aver pensato che probabilmente non avremmo superato la notte perché certamente qualcuno sarebbe venuto per ucciderci. La mattina dopo, per tentare di fare amicizia con quel posto inospitale e terrificante, ho fatto una passeggiata sulla spiaggia, ho cercato il mare, avvolta in una grigia aria bagnata e devo dire che, nonostante tutto, anche qui la Namibia è riuscita ad accarezzarmi il cuore.

Gli ultimi chilometri li abbiamo macinati per dirigerci verso il parco naturale dell’Etosha dove abbiamo trascorso 4 giorni da togliere il fiato insieme ad elefanti, leoni, giraffe, gnu, antilopi, rinoceronti, facoceri, zebre, struzzi, aquile, iene, ghepardi, impala e tantissime altre specie animali. Il bello di questo parco è che il safari è possibile farlo autonomamente con la propria auto per cui anche qui il contatto con la natura, lontani dal genere umano, è stato profondo e toccante.

La fine di questo viaggio, come credo ogni viaggio per chi ne fa una ragione di vita come me, è stato chiaramente un colpo al cuore. Riassumerlo in un racconto non è semplice, le parole non renderanno mai giustizia ai ricordi impressi negli occhi, alla ricchezza che mi hanno lasciato dentro questi luoghi. Dico che è stato uno dei viaggi più belli della mia vita, dico che bisogna vederla, la Namibia, assaporarla e riempirsi di tutto quel nulla.

 

Isabella Calzolari

 

 

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